L'Italia senza politica


Afghanistan, sono morti altri due soldati italiani. Ora, come altre volte ogni qual volta vi sono caduti italiani, si riaprirà il dibattito su cosa ci stiamo a fare, con quelli che chiederanno (già lo chiedono) il ritiro e quelli che insisteranno sull'importanza della missione di pace. Gli schieramenti già ci sono, sono ripetitivi e si ripeteranno. Si dirà che non è adesso il momento di fare polemiche. Che ora bisogna piangere i nostri morti, che il tempo per una analisi politica verrà dopo, a freddo. E' stato detto ogni volta, in questo conflitto e in quello iracheno, dopo ogni morto. Ma il tempo dell'analisi non è mai arrivato.

Adesso sono morti due soldati italiani. Si aggiungono ai 25 di tutte le nazionalità già caduti in questa prima metà di maggio, ai 34 di aprile, ai 39 di marzo. Dall'inizio dell'anno sono 200 i caduti della coalizione occidentale in Afghanistan, 125 americani, 40 inglesi, 35 di altri paesi e tra questi gli italiani saltati questa mattina per aria sul loro mezzo corazzato Molti di più sono i soldati e i poliziotti afgani e molti di più ancora i talebani e i civili. Migliaia, decine di migliaia. Numeri. Dietro ai quali ci sono vite umane distrutte in una guerra civile e in una guerra guerreggiata della quale non si vede la fine e si è perso il senso. E di cui ormai ci si occupa solo quando ci tocca direttamente.


Ora, come altre volte ogni qual volta vi sono caduti italiani, si riaprirà il dibattito su cosa ci stiamo a fare, con quelli che chiederanno (già lo chiedono) il ritiro e quelli che insisteranno sull'importanza della missione di pace. Gli schieramenti già ci sono, sono ripetitivi e si ripeteranno. Si dirà che non è adesso il momento di fare polemiche. Che ora bisogna piangere i nostri morti, che il tempo per una analisi politica verrà dopo, a freddo. E' stato detto ogni volta, in questo conflitto e in quello iracheno, dopo ogni morto. Ma il tempo dell'analisi non è mai arrivato.
Noi, che ci occupiamo da anni su queste pagine di Afghanistan e di Iraq, che abbiamo raccontato gli orrori e l'insensatezza di queste due guerre gemelle, non vogliamo unirci al dibattito, né alzare bandiere ideologiche. Come la pensiamo e come la pensa questo giornale i lettori lo sanno. Sanno che, almeno dai primi mesi del 2002, la bandiera della missione di pace per riportare la libertà e la democrazia in Afghanistan è un'ipocrisia, un paravento per nascondere scelte di politica estera determinate dai vincoli (veri o presunti) di alleanza con gli Stati Uniti. E' successo questa volta ed è successo altre volte, nei Balcani e in Somalia.
Si fanno scelte, si decide di intervenire per motivi di interesse (presumibilmente l'interesse "nazionale"), ma in cosa consista questo interesse non lo si dice. Invece si propalano giustificazioni idealistiche, umanitarie: salvare vite umane, ricostruire l'economia, portare la democrazia. Come se non esistessero decine o centinaia di posti sulla terra dove manca la democrazia, dove impera la miseria e dove le vite umane vengono falciate dalla guerra.


Quando arrivano le prime vittime (le nostre, non quelle degli altri, dei quali a nessuno importa) e l'opinione pubblica incomincia ad interrogarsi si preme sul tasto del patriottismo (non rendere vano il sacrificio dei nostri eroici ragazzi), della coerenza e della fermezza (farci rispettare dagli alleati), dell'orgoglio militare (adesso vi facciamo vedere che anche noi sappiamo combattere).
Quello che manca, che è mancato, prima, dopo e durante questi conflitti, è una qualunque riflessione del rapporto tra mezzi e fini, tra obbiettivi da perseguire e tempi e modi per raggiungerli: manca tutto ciò che costituisce la base di una decisione "politica", distinta da un impulso emotivo o dallo zelo missionario. Non solo della congruità degli obbiettivi con l'orizzonte più ampio della politica, cioè dell'interesse, nazionale, ma della possibilità del loro raggiungimento nelle condizioni date. Si sacrificano vite umane e si scialacquano risorse materiali senza spiegare e senza neppure domandarsi perché.
Tutto ciò non riguarda solo il governo in carica, ma anche quelli che lo hanno preceduto; e non solo questo paese, ma più o meno tutti quelli che partecipano al conflitto. Dappertutto c'è un deficit di analisi, o meglio, quando l'analisi c'è, non si traduce in decisioni politiche conseguenti. Si va avanti per inerzia, sperando che le cose migliorino.
Il costo di rinunciare e ammettere di avere sbagliato sembra essere troppo grande rispetto a quello di non fare nulla. Meglio puntare sul patriottismo e sulla "missione" da portare a termine, sperando che gli elettori ci credano (e, fino ad un certo punto, funziona). Di tanto in tanto si organizzano controffensive, si aumenta il numero delle truppe, si intensifica la caccia all'uomo, ben sapendo che solo un colpo di fortuna, una serie di colpi di fortuna, potrebbero modificare la situazione sul campo, non nel senso di realizzare la palingesi promessa, ma almeno ad una parvenza di vittoria che consenta un "ritiro con onore", come ai tempi del Vietnam.
Tutto ciò è sotto gli occhi di tutti. Chi segue laggiù, o racconta da qui, gli sviluppi militari, la inarrestabile crescita dell'influenza talebana, l'incapacità e la corruzione del governo afgano, l'aumento delle uccisioni mirate e di quelle casuali, la farsa della ricostruzione, le lotte di potere e la lotta per la sopravvivenza della gran parte della popolazione - sa bene che non c'è via d'uscita se non attraverso una pace negoziata, e che i negoziati andrebbero iniziati subito prima che la sconfitta si faccia rovinosa.


Di questo si dibatte negli Stati Uniti e nel Regno Unito e in molti altri paesi che partecipano al conflitto. In Italia no. In Italia non solo la stampa è disattenta e l'opinione pubblica non informata, ma anche a livello di governo l'indifferenza, e probabilmente l'ignoranza, sono totali. Il dibattito si accende per qualche giorno in parlamento quando, periodicamente, bisogna approvare gli stanziamenti, poi cala di nuovo il torpore.
Il fatto è che in questo, come in altri campi, l'Italia non ha una politica estera: né guerrafondaia, né pacifista, né neocoloniale, né umanitaria, né di potenza di qualunque grado. L'Italia semplicemente aspetta che altri - gli Stati Uniti - decidano per lei. Poi, quando la decisione sarà presa, verranno trovate le giustificazioni, sempre nobili e sempre coerenti. Intanto, nell'attesa che ci dicano cosa fare, i soldati muoiono e diventano subito eroi.

Di Stefano Rizzo
Fonte: Granello di sabbia